Julia Fullerton-Batten
“KOREA”
La fotografia del sogno interrotto
Julia Fullerton-Batten appartiene a quella giovane generazione di fotografi che usano grandi capacità tecniche per produrre immagini irreali, grazie ad una attenzione ai particolari che arrivaall'inverosimile.
Discepoli degli assurdi still-life e delle claustrofobiche visioni di Irving Penn, sono reporter del dolore quotidiano, inventori di luoghi inesistenti dove ogni cosa ci dice che quel mondo non può essere vero, come negli scatti di Tim Walker.
Nata negli anni 70, Fullerton-Batten cresce professionalmente in un momento in cui un diploma alla Berkshire College of Art and Design e cinque anni di pratica sono ancora fondamentali per arrivare al proprio stile. Artisticamente vive gli anni d'oro del prodotto visivo del piccolo e grande schermo (ha tredici anni quando inizia Twin Peaks) su una estetica Lynchana che oltre a lei influenzerà altri suoi simili come Gregory Crewdson.
Una onda creativa che indirizza la sua produzione su immagini con un fine drammaturgico: ogni scatto é il manifesto di un film, ogni fotografia, grazie alle grandi capacità di realizzazione e postproduzione, é il documento di un futuro prossimo dove sfondo e soggetto non si possono più amalgamare.
I protagonisti dei suoi scatti sono spesso fuori scala, troppo grandi o troppo piccoli, ciechi e albini; sono personaggi sbagliati come figurine attaccate male su quell'album che é la loro vita. Raccontano un disagio esistenziale biografico, la sofferenza per il distacco da Brema, la città di nascita in Germania, per la separazione dei genitori e il trasferimento a Londra. Un dolore che congela immagini simili a ricordi adolescenziali e paralizza i corpi come un incantesimo; la luce fa il resto con un continuo mix fra naturale e artificiale, e così tutto sembra un rendering, il progetto di quello che la vita potrebbe essere.
Sproporzione di corpi fiabeschi come quelli di Gulliver o di Alice nel paese delle Meraviglie, e questa loro inadeguatezza fisica, e quindi emotiva, che si accentua se l'ambientazione celebra un evento particolare.
Riti domestici e famigliari, scuola, madri e figlie sono propaganda della realtà, sono immagine patinata ma non risolta: anime di un purgatorio coloratissimo ma piatto, ancora più difficile da superare.
C'é un inevitabile glamour nei suoi scatti, outfit e look sono studiati nei minimi particolari, la moda diventa ispiratrice del set fotografico, costruito come per una campagna di comunicazione di un brand. L'estetica domina anche il soggetto più difficile: l'obesa nuda deve conservare uno stile, non c'é finzione ma la realtà di un collage dove pezzi che sembrano staccati costruiscono una immagine precisa.
Una dinamica che lega arte e moda generando una reciproca influenza, espressa perfettamentedall’artista tanto da portarle l'incarico - prima e unica donna - per la realizzazione del Calendario Campari 2015.
Grazie quindi alla sua profondità riflessiva, espressa artisticamente in forma contemporanea, viene chiamata ad inaugurare VISIONAREA con il progetto Korea del 2013, un progetto simbolico, oltre che del suo lavoro, di quello che il nuovo spazio espositivo vuole accogliere: un luogo destinato al dialogo culturale attraverso l'arte, alla lettura degli altri attraverso l’opera di artisti visivi, reporter del contemporaneo.
Korea racconta, attraverso ritratti e ambientazioni di situazioni culturali, le caratteristiche di un paese diviso in due, dove i contrasti nascono soprattutto dalla persistenza delle tradizioni sulla modernità della vita di una metropoli come Seul.
Figure femminili, delicate come fiori o farfalle, vivono sullo sfondo freddo di luoghi senza identità: a volte obbedienti ripetono situazioni culturali tipiche come il gioco del badmington, altre sembrano cercare una via d'uscita da un sogno che le imprigiona immobilizzandole. Sicuramente un richiamo ad una condizione femminile apparentemente perfetta, ma che nasconde la sofferenza della mancanza di libertà: come certe pubblicità degli anni 50 che ritraevano donne felici, nei loro abiti a corolla, con una aspirapolvere in un interno domestico scintillante.
Queste donne indossano l'Hanbok, il tradizionale abito coreano, che consiste in due parti: la giacca e una ampia gonna dalla vita alta (o pantaloni per gli uomini). L'Hanbok fonde il design orientale del chimono con quello occidentale del vestito o tailleur: la giacca corta evidenzia la silhouette slanciata, sostenuta dalla gonna che occupa quasi tutta l'altezza della figura. Il colore e la qualità dei tessuti differenziano l'abito per i ricchi da quello per i poveri.
La preziosità dei tessuti e la gamma dei colori che Julia Fullerton-Batten rende quasi tangibili ci fanno pensare che le donne ritratte siano nobili, ricche e per questo ancora meno libere; in pericolo perché prigioniere, guardano la luce in una scatola; ma il colore verde della carta che la ricopre, un significato negativo nella loro tradizione, accentua la trasgressione del loro gesto.
Effetti e immagini frutto della manipolazione e dell'accelerazione del processo di comprensione del racconto, che aiutano a entrare nel sogno, in quella dimensione visionaria che privilegia comunque il dubbio e celebra il mistero di cosa é appena accaduto e cosa sta per accadere.
Un lavoro che conferma la capacità della fotografia di evolversi in forma di documento, quella del fotografo artista di esprimersi come un vero storyteller, creando la possibilità per chi guarda di apprezzare la profondità “tecnologica” senza perdere la visione romantica.
Clara Tosi Pamphili